LO  SCRIPTORIUM  DI  PIERPAOLO  GHISETTI

ARTICOLO  n°  40

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LA SOFFITTA - un racconto su Eugene Smith

 

Pierpaolo Ghisetti

(29/04/2014)

 

New York City, Sesta Avenue, 1957.

Il fabbricato, tetro e scuro, con l’intonaco scrostato, sembrava in eterna ebollizione: non a caso i suoi occupanti l’avevano denominato “Confusion Place”.

Davanti all’ingresso, lungo una breve rampa di scale sudice, sostava abitualmente un animato gruppo di giovani di colore, che discutevano ad alta voce per tutto il giorno. Subito accanto c’era un negozio di ferramenta, da dove saltuariamente si levavano vari rumori: di martello, di sega, di trapano.

Al primo piano, verso sera, un sassofonista ripassava i pezzi che avrebbe poi suonato durante la serata in qualche locale notturno. Al secondo piano viveva un pittore d’avanguardia, sempre in crisi con la sua ragazza. I litigi dei due, di solito per questioni di soldi, avvenivano quotidianamente, ed erano uditi da tutto il palazzo. Al terzo piano risiedeva un personaggio ambiguo, viscido e strafottente, che riceveva ad orari regolari parecchie persone. Era il distributore ufficiale d’anfetamine del quartiere: lo sapevano tutti, polizia compresa, ma sembrava quasi che effettuasse un servizio sociale, tanto grande era la sua reputazione, specie tra i giovani.

La soffitta dell’edificio, attrezzata a studio fotografico, era occupata da W. Eugene Smith, uno dei più famosi fotografi americani d’ogni tempo. Aveva lasciato la famiglia e il prestigioso incarico presso l’influente rivista Life, per vivere nello stimolante ambiente degli artisti. Gente che rifiutava le contraddizioni e le ansie della società americana di quel tempo: la paura della guerra fredda, la segregazione, il razzismo. Persone che vivevano come in un ghetto volontario, sfiduciati ed ombrosi, sprezzanti dei riconoscimenti della cultura ufficiale.

Gente che spesso si rifugiava nell’alcol o nella droga, per potersi espandere interiormente ed aumentare la propria capacità creativa, qualunque fosse la direzione scelta.

Tuttavia, se la sua sensibilità si era affinata, per Smith gli incarichi di lavoro languivano. Si doveva accontentare di commesse commerciali, ben lontane dai grandi reportage di Life.

Ora, ad esempio, doveva fotografare l’insegna di un negozio di salumi italiano.

Dunque, vediamo, si potrebbe…ma la sua mente vagava, vagava e ricordava….

Era il 1948 quando aveva intrapreso il progetto di seguire e fotografare il lavoro di un semplice medico di paese. Il dottor Ceriani s’era dichiarato subito disponibile.  Eugene si era stabilito nel piccolo villaggio, con l’intento di rimanervi qualche settimana.  C’era rimasto per dei mesi, diventando l’ombra del dottore, seguendolo nelle sue visite alle varie fattorie, vivendo con lui i drammatici momenti delle operazioni, dividendo il caffè serale nei pochi istanti di relax. Allora lavorava con la piccola e compatta Leica IIIc anteguerra, che gli permetteva di muoversi con un corredo estremamente leggero. Ricordava bene quando due sconvolti genitori avevano portato all’ambulatorio il loro figlioletto colpito alla testa dal calcio di un cavallo. Dopo avergli ricucito la ferita sopra l’occhio sinistro, lunga almeno dieci centimetri, il dottor Ceriani aveva capito che il bambino avrebbe perso l’uso dell’occhio. Eugene continuava a riprendere la scena col grandangolare Leitz Elmar 3,5cm f/3,5 come un’ombra, mentre il padre cercava di calmare la moglie in lacrime: la tensione era arrivata ad un tale livello che Eugene s’era come smaterializzato, dato che i presenti neanche più notavano il rumore dello scatto della macchina fotografica. Così aveva potuto riprendere con estrema naturalezza l’intensa espressione del dottore, proprio nel momento in cui cercava le parole mentre spiegava la drammatica situazione ai due poveri genitori. Il reportage, intitolato “Country Doctor” (Un dottore di campagna) era apparso sul numero di Life del 20 settembre: le immagini non solo avevano commosso l’America, illustrando l’abnegazione di un oscuro medico di provincia, ma avevano rafforzato in Smith la passione per l’impegno sociale che avrebbe sempre caratterizzato la sua fotografia. Gene aveva posto il medico al centro della sua storia come pretesto per raccontare i problemi della semplice gente di campagna.

 

 

Slegato da visioni preconcette e politicizzate, Eugene si sentiva prima di tutto vicino agli uomini, al loro lavoro quotidiano, al loro sacrificio.

Dunque, si potrebbe riprendere il proprietario tra i salumi: troppo banale, sapeva di scenetta….

Certo che fotografare era forse più facile sulla portaerei Bunker Hill, anche se i regolamenti militari sembravano fatti apposta per contrastare l’uso della macchina fotografica. Ma le sue splendide immagini avevano incominciato a circolare e sbarco dopo sbarco, aveva potuto seguire la guerra in tutto il Pacifico. Ma più delle azioni belliche, lo interessava l’aspetto umano, quel momento in cui esseri apparentemente normali e ragionevoli erano costretti a mutarsi in assassini. All’epoca possedeva un vasto corredo fotografico, che gli permetteva di spaziare dalla grossa Speed Graphic, alla Rolleiflex 6x6, sino alla Contax II con ben cinque ottiche. Ricordava bene lo stupore e l’imbarazzo del marine che nel giugno del 1944, a Saipan, aveva trovato tra le rovine un bimbo di pochi mesi, completamente nudo, durante lo sgombero dei civili, dopo la terribile battaglia. Aveva sollevato quell’esserino con delicatezza, mentre un compagno, col Garand in mano e la sigaretta tra le labbra, l’osservava perplesso. Ad Eugene la scena era sembrata la vittoria della vita sulla brutalità feroce che tutti stavano vivendo in quelle ore. La sua immagine era come un messaggio di speranza, anche se il piccolo giapponese era poi morto prima di arrivare all’ospedale.

 

 

E se invece avesse disposto i vari salumi in una composizione tipo natura morta, un’interpretazione alla Weston, tanto per intenderci, un’immagine dove la visione prevaleva sul soggetto? E se poi al cliente non fosse piaciuta? Certo, non ci si poteva aspettare un gran senso artistico da un salumaio!

 “Spanish Village”, (Il villaggio spagnolo) quello sì che era stato un’autentica sfida, la vera prova del fuoco, l’estremo tentativo di trasformare il reportage in testimonianza!

A Deleitosa, nel 1951, si era trovato di fronte ad una civiltà lontana anni luce dalla cultura americana. Isolato dai centri cittadini, in quello sperduto villaggio dell’Estremadura viveva una popolazione ancora vincolata alla dura legge della fatica fisica, una legge uguale per tutti, uomini, donne e ragazzi. I ritmi del paese, scanditi dal lavoro agricolo, avevano affascinato Smith, e l’avevano ispirato come raramente gli era capitato nella vita. Aveva vissuto mesi in quel paesino. Circondato da una terra arida ed avara, riprendendo migliaia di fotogrammi da cui erano usciti personaggi e situazioni intensi ed emblematici: la filatrice, l’arrivo del panettiere col pane caldo, la veglia del funerale, la vendita dei prodotti agricoli, la sarchiatura del grano. Le potenti immagini in bianco e nero, molte della quali riprese sempre con l’Elmar 3,5cm, con la vivida rappresentazione dei rudi visi degli uomini della Guardia Civil, o delle donne dai volti segnati dalla fatica, avevano attratto prima l’attenzione dei redattori di Life, e poi quella del pubblico, quando il 9 aprile di quell’anno erano apparse sulla rivista. Smith si era guadagnato recensioni molto favorevoli e aveva provato la sensazione di essere riuscito a coinvolgere i lettori in quello che considerava uno dei più bei reportage apparsi su Life. Infatti, seppure molto critico verso se stesso e spesso insoddisfatto dei risultati ottenuti, sapeva riconoscere un lavoro ben fatto. 

 

 

Adesso, però, bisognava trovare dei prosciutti e dei salami, e riprenderli in studio. E se poi il fornitore avesse pensato che se li sarebbe mangiati? In effetti, considerando il misero regime alimentare cui si era ridotto, non era del tutto improbabile.

C’era poco da scialare anche nell’ospedale del dottor Schweitzer, laggiù a Lambarené, in Gabon, quando aveva realizzato un commovente reportage sulla dedizione del famoso medico per le popolazioni africane. Lo aveva intitolato “A Man of Mercy” (Un uomo di carità), ed era apparso nel 1954: il vecchio dottore sembrava il simbolo stesso dell’impegno civile, disinteressato e nobile, sempre vicino alla persone sofferenti, totalmente incurante dei rischi. Aveva cercato il ritmo del racconto ispirandosi alla lettura di Steinbeck, qualcosa di semplice ed epico allo stesso tempo. 

 

 

Tuttavia questo servizio gli aveva procurato grandi amarezze. I redattori di Life volevano dedicare poche pagine alle fotografie, mentre Eugene avvertiva la necessità di spazi più ampi, come riconoscimento al suo faticoso lavoro. Il sensazionalismo verso cui era ormai avviata la rivista, gli sembrava una svendita dei valori che aveva cercato di trasmettere nelle sue immagini. La rottura era stata inevitabile e netta: dopo anni di collaborazione, Smith si era dimesso dall’incarico, privandosi così dell’ombrello protettivo del vasto pubblico cui Life aveva accesso, ed era divenuto socio della agenzia Magnum, dove sperava di trovare più libertà per i suoi lavori.

Forse poteva fotografare la vetrina del negozio con una macchina di grande formato, per rendere al meglio i prodotti, magari con una pellicola a colori…ma no, che idea balorda, lui aveva esperienza solo di macchine da reportage, piccole e leggere e aveva sempre fotografato in bianco e nero. E poi con le sue magre finanze dove la trovava una macchina di formato 8x10? No, doveva……..

Doveva trasmettere l’orrore, l’amarezza, il rifiuto per la barbarie. Là, nella chiesa cattolica di Leyte, nelle isole Marianne, mentre all’esterno infuriavano combattimenti feroci e la gente era bruciata viva dai lanciafiamme, scorse, nel buio dell’abside, una figura bianca distesa su un lettino. Un uomo con la testa e le mani completamente fasciate da garze bianche pregava, mentre nei primi banchi le suore intonavano una litania liturgica, durante la funzione. La Contax aveva ripreso un fantasma che non si lamentava ma che rappresentava la testimonianza dolorosa di quello che stava succedendo fuori della tranquilla serenità della chiesa. Era il novembre del 1944 e quella guerra nel Pacifico sembrava non dovesse avere mai fine: più gli americani avanzavano e più i giapponesi si facevano massacrare sino all’ultimo uomo, creando nei vincitori una specie d’esaurimento, una spossatezza che li stancava molto più dei combattimenti stessi La nausea del sangue si era impadronita dei combattenti, ed Eugene voleva che la gente a casa s’immedesimasse con i combattenti al fronte. La vittoria degli uomini in prima linea era ben diversa dall’idea di vittoria che si respirava nel Paese, a migliaia di chilometri di distanza dall’orrore.

 

 

Di fronte al ricordo esaltante dei momenti vissuti e dei grandi servizi realizzati nel passato, Eugene si faceva diverse domande sulla sua scelta di andare a vivere come un artista squattrinato, proprio lui che era stato una delle “stelle” di Life, osannato dai critici e seguitissimo dal pubblico. E ora, dopo aver trattato la violenza della guerra, i grandi temi sociali, i personaggi famosi doveva risolvere un problema di prosciutti!

Ma era stata una decisione autonoma, nessuno l’aveva costretto, anzi aveva abbandonato anche la Magnum , del resto voleva essere completamente libero!

Ma la libertà si paga, si paga sempre, e il prezzo era stato alto. Alla sua tredicesima missione come reporter di guerra, era stato colpito da una scheggia di granata ad Okinawa, il 22 maggio del 1945. Fortunatamente la macchina fotografica, una grossa Zeiss Super Ikonta a soffietto, l’aveva parzialmente protetto, ma gli effetti erano stati devastanti. Aveva varato il progetto di seguire la giornata di un semplice soldato di fanteria, correndo troppi rischi, pur di cercare quel realismo e quella naturalezza che erano il suo credo fotografico. Niente pose né finzioni, la realtà doveva parlare da sola, ma occorreva rischiare la pelle, esattamente come l’ultimo dei marines, e le pallottole dei giapponesi non facevano differenza tra il reporter impegnato e il semplice soldato yankee. La scheggia di mortaio gli fracassò la mano e la mandibola, spedendolo direttamente sulla nave ospedale.

 

 

Gli ci vollero ben due anni per rimettersi, ma nel frattempo era diventato quasi un eroe, il simbolo dei fotografi pronti a mettere in gioco la loro stessa vita per riprendere quello in cui credono. Si era perfino illuso di poter utilizzare il prestigio e l’autorità acquisite sul campo per cercare di cambiare il mondo delle riviste patinate, rendendole più attente alle problematiche sociali e moralmente più consapevoli. Aveva messo in gioco tutto, la reputazione e la salute, ma aveva rischiato di uscirne distrutto, finendo quasi per perdere, ossessionato dal suo idealismo, l’equilibrio mentale.

Forse riprendere tutta la famiglia del salumaio a tavola avrebbe trasmesso un vivace senso di allegria: se i suoi figli mangiavano i suoi salumi era un buon motivo per fidarsi.

Non era più sicuro che sarebbe stato capace di tornare a fotografare dopo i lunghi mesi passati all’ospedale, facendosi curare le innumerevoli ferite. Quel giorno, uno dei primi della convalescenza, aveva deciso di mettersi alla prova: con fatica era riuscito a spingere il rullino nella macchina fotografica e mentre i suoi due bambini passeggiavano in giardino era riuscito a riprenderli mentre si allontanavano nel fogliame tenendosi per la mano. Aveva cercato un’immagine che lo facesse uscire da due anni di vuoto, con ostinata decisione aveva combattuto con l’annebbiamento mentale che s’era impadronito di lui in quel tempo pieno di nulla. “The Walk to Paradise Garden” ( La Passeggiata al giardino del Paradiso), era diventata immediatamente un simbolo, un delicato momento di vivida purezza dopo anni di bestiale barbarie. Pubblicata nel 1946 da Popular Photography, quest’immagine fece il giro del mondo e il grande Edward Steichen, allora una vera autorità in America per quanto riguardava la fotografia, l’aveva scelta come immagine conclusiva della grande mostra collettiva “The Family of man”. Il libro della mostra, che aveva avuto un successo clamoroso di pubblico e di critica, aveva portato a Smith una notorietà perfino esagerata, ma in fondo lui aveva cercato di fotografare solo i suoi figlioli.

 

 

Insomma, poteva sempre andare al negozio e realizzare tutte le idee che aveva avuto: con una mezza dozzina di rullini sicuramente qualcosa di buono sarebbe venuto fuori, e il committente sarebbe stato sicuramente soddisfatto. Già, ma se non lo fosse stato? Non poteva sopportare l’idea del rifiuto.

Gli era già accaduto a Pittsburgh, la città dell’acciaio. Nel 1955 aveva accettato di illustrare uno dei capitoli della storia della città, per un libro fotografico che si stava preparando. Ma nel tentativo di catturare la realtà labirintica della grande città industriale s’era spinto troppo in là: lavorò al progetto per due anni, scattando migliaia di fotografie, sino a realizzare settemila prove di stampa. Aveva esagerato, superando notevolmente i preventivi di spesa e d’impegno. Inoltre gli avevano anche rubato gli apparecchi fotografici, la vecchia Leica IIIc e la più recente IIIf, costringendolo ad acquistare una nuova Leica M3, che apprezzava molto per la rapidità dell’innesto delle ottiche. La Magnum però non si servì delle sue foto perché erano giunte con mesi di ritardo rispetto alla consegna pattuita. Alla fine riuscì a pubblicare 88 foto (una miseria, se pensava ai quindicimila negativi prodotti!) sul Photography Annual del 1959.

 

 

Il fallimento del suo sforzo, l’esaurimento psichico e fisico in cui era caduto, il depauperamento delle sue risorse finanziarie, l’avevano portato a inselvatichirsi definitivamente.

Aveva sempre davanti agli occhi il fallimento della vita di suo padre, che s’era suicidato nel 1936, lasciando la famiglia disastrata piena di debiti. No, lui non poteva essere un fallito!

E invece….eccolo lì il grande campione dei diritti civili, il cantore degli uomini giusti, l’illustratore del reportage poetico!

Sconfitto da un battaglione di salumi, che marciavano su di lui compatti e spietati, riducendolo all’esaurimento definitivo. Doveva rientrare nella realtà delle cose, non era un artista ma un semplice fotografo. Life era andata avanti lo stesso, anche senza di lui e così pure la Magnum , era lui che non riusciva più a connettere.

Era arrivato alla disperazione: tutto quello di buono che aveva realizzato nella sua vita era come sabbia che gli sfuggiva tra le mani. La lotta al “male” con la sola forza morale della speranza era impossibile. Il viaggio verso la rinascita dell’uomo si era concluso col suo annientamento. Aveva fallito perché le sue immagini non erano riuscite a smuovere la stupidità della violenza umana. Non riusciva a costruire più niente, perché vivendo troppo intensamente il dramma degli altri, non riusciva più a costruire se stesso.

Fosse stato forte almeno….almeno da opporsi ai redattori di Life che volevano tagliare, censurare, impaginare secondo i loro criteri di falsa obiettività. No! Non era possibile, la scelta doveva essere fatta con l’autore delle immagini, era il fotografo che aveva vissuto quelle emozioni, era il fotografo che le trasmetteva al pubblico, e quindi spettava all’autore scegliere quali immagini pubblicare ed anche come sistemarle all’interno dell’articolo.

Sì, rimuginava Smith, ormai totalmente preso dalle sue elucubrazioni, la prima cosa che bisognava fare era eliminare la parola oggettivo dal vocabolario del giornalismo impegnato. Onesto sì, ma mai oggettivo! Come si faceva a rimanere imparziali di fronte all’immoralità della guerra, all’assoluta dedizione di tante oscure persone, alla grandezza del lavoro di un dottor Schweitzer? Come rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza, dispiegata crudelmente davanti al fotografo? Altro che libertà di stampa, c’era solo da comprendere il più onestamente possibile le terribili situazioni che si svolgevano sotto i suoi occhi.

Gene sapeva bene che la sua maggiore qualità era anche il suo peggiore difetto: s’identificava col soggetto in maniera totale, finendo per condividere in modo viscerale i problemi dei suoi personaggi .

Ma non poteva contenere tutti i mali del mondo: esausto si distese sul divano per entrare in uno stato di esaurimento psico-fisico, come ormai gli capitava sempre più spesso.

Non stava più tanto bene di salute: partecipava a conferenze e a mostre fotografiche, ma non riusciva più a trovare un tema per un grande reportage d’impegno sociale, il lavoro che l’aveva appassionato per anni.

Era ormai il 1970 e Gene aveva assunto ormai un’aria trasandata, con una folta barba incolta che gli donava l’aria di un profeta biblico.

In quel periodo stava organizzando una grande retrospettiva sul suo lavoro, su richiesta di Cornell Capa, il fratello di Bob. Quello sì che era stato un vero fotografo, sempre in prima linea a rischiare la pelle, pur di testimoniare di aver visto coi propri occhi cosa succedeva nel mondo. Ormai i giorni grandi erano passati, ed era costretto a vivere di ricordi…

Suonò il campanello.

Era una donna giapponese, piccola e con un gran sorriso. S’inchinò.

-         Buon giorno, lei è il famoso Eugene Smith?

-         Già, si accomodi, desiderava un ritratto? Attualmente sono molto occupato, ma domani……

-         No, no, signor Smith. Io sono Kazuhiko Motomura e rappresento la casa editrice Yugensha. Saremmo interessati a portare la sua mostra in Giappone. Sa, le sue foto hanno avuto un grande impatto anche presso il nostro pubblico. E poi…..

-         Sì, va bene, mi piacerebbe molto. C’è dell’altro?

-         Ci sarebbe un posto, si chiama Minamata, dove la popolazione è stata contaminata dall’inquinamento di un’industria chimica. Volevano chiedere un indennizzo, ma sa come vanno queste cose. Però se lei fotografasse la situazione che si è creata, forse si riuscirebbe a smuovere l’opinione pubblica. Dovrebbe proprio recarsi là.

Il cuore di Eugene aveva iniziato a battere all’impazzata: era l’occasione che stava aspettando da anni, il riscatto, l’ultima sfida e questa donna lo pregava anche. Cercò di controllarsi, mentre l’emozione lo sommergeva, come non gli capitava dai tempi degli sbarchi nel Pacifico.

-         E quanto pensa che dovrei trattenermi?

-         Sappiamo bene come lavora lei signor Smith, le copriremo noi tutte le spese, non dovrà preoccuparsi di nulla. L’importante è che lei riesca ad ottenere delle immagini che arrivino al cuore della gente.

Gene si sentì di colpo ringiovanito di molti anni: quella donna non gli stava proponendo un lavoro ma la rinascita della sua esistenza. Forse non tutto era finito.

Minamata si trovava sul versante occidentale dell’isola di Kyushu: Smith vi si fermò per ben tre anni, vivendo e soffrendo le terribili menomazioni di quella sventurata popolazione. Il pesce avvelenato dal mercurio degli scarichi inquinanti della Chisso Corporation provocava in quella comunità di pescatori lesioni cerebrali irreversibili. Ne risultarono le immagini più straordinarie che avesse mai fatto: ne fu tratto un libro e decine di pubblicazioni sul tema dell’inquinamento. Per questo importante servizio si servì di diverse apparecchiature acquistate in Giappone, tra cui alcune reflex Nikon F con diversi obiettivi, tra i quali alcuni grandangolari spinti.

 

 

Gene sentiva di aver fatto qualcosa d’importante per tutta l’umanità, e sperava che il mondo lo ricambiasse con quell’atto d’amore che aveva sempre cercato.

Ma, come sempre, s’era illuso: durante una manifestazione di protesta contro l’inquinamento fu picchiato così duramente da riportare gravi ferite, tali da non rimettersi più del tutto.

Minamata costituì il suo testamento fotografico: immagini che costituiscono forse il punto più alto di fusione tra ragione e sentimento, la rappresentazione consapevole di un dramma che si sarebbe allargato a tutta l’umanità.

Nel 1978 fu ricoverato in uno stato di profonda confusione mentale: morì il 15 ottobre.

EUGENE SMITH

Nasce il 30 dicembre 1918 a Wichita nel Kansas, USA. Verso la metà degli anni Trenta si mette a fotografare e, dopo il suicidio del padre, entra nell’Università dell’Indiana, lavorando come fotografo. Nel 1937 si trasferisce a New York ed inizia a lavorare per Newsweek. L’anno successivo lascia la rivista ed entra nell’agenzia Black Star, ove inizia un periodo produttivo frenetico. Lavora per tutte le principali riviste americane per approdare finalmente a Life, dove pubblica molti reportage. Nel 1942 lascia Life per il nuovo settimanale Parade.  Nel 1943 entra nello staff della rivista Flying, come corrispondente di guerra per il fronte del Pacifico e, dopo essere stato sulla portaerei Independece, viene trasferito alla Bunker Hill, sulla quale compie sedici missioni di volo, fotografando dall’alto innumerevoli azioni di guerra. Nel 1944, tornato a lavorare per Life, partecipa alle battaglie di Guam, Iwo Jima, Okinawa, e all’invasione delle Filippine. Il 22 maggio del 1945, proprio ad Okinawa, viene ferito da una granata, che gli fracassa una mano e la mandibola. Prima di rimettersi completamente subisce diversi interventi chirurgici. Sino al 1955 lavora come redattore per Life, per la quale realizza alcuni dei suoi più famosi servizi. Nel 1956 entra nell’agenzia Magnum ed inizia a fotografare Pittsburgh, un progetto che lo porterà a produrre 10.000 negativi e 400 stampe. Ma il fatto che alla fine siano pubblicate solo trentotto pagine dell’immenso lavoro di ricerca lo porterà all’esaurimento nervoso. Nel 1957 si trasferisce in una soffitta di New York e continua a produrre reportage di forte impatto sociale. Gli viene conferito il titolo di ‘uno dei dieci fotografi del mondo’ dalla rivista Popular Photography. Insegna in diverse scuole private, tenendo molte conferenze. Nel 1970 tiene una grande mostra retrospettiva al Museo Ebraico di New York. Nel 1971 si reca a Minamata, in Giappone, ed inizia a documentare la drammatica situazione delle popolazioni colpite dall’inquinamento industriale per avvelenamento da mercurio. Su Minamata e le sue conseguenze pubblica una dozzina di articoli con fotografie, mentre il libro ottiene un grande successo in tutto il mondo. Per il suo impegno ottiene diversi premi, concede numerose interviste e fa apparizioni televisive. Nel 1978 viene ricoverato in uno stato di confusione mentale. Muore il 15 ottobre.

Profondamente segnato dall’esperienza bellica, Smith ha prodotto reportage strutturati come autentici racconti fotografici, fortemente orientati sul sociale, ricchi di partecipazione emotiva. Si è sempre battuto per una stampa responsabile e moralmente impegnata, sino a mettere a repentaglio la propria salute e il proprio equilibrio mentale.

Per passione e bravura tecnica ha influenzato generazioni di fotografi, che hanno visto in lui il vero prototipo del fotografo ‘impegnato’.

 



(testi e foto delle attrezzature di Pierpaolo Ghisetti)

 


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