LO SPUNGONE DEL QUADRONE  -  DESCRIZIONE DI 

 UN   INTERESSANTE   RICICLO  DI  MATERIALI  CHE

COINVOLGE GEOLOGIA, ARCHITETTURA E STORIA.



(21/06/2014)


Di primo acchito "lo Spungone del Quadrone" può evocare una storiella leggera dai contorni boccacceschi ma in realtà  inerisce direttamente la storia di Faenza, la mia città natale e, prendendo spunto dalla costruzione di due famosissimi edifici del centro, avvenuta o iniziata nella seconda metà del '600, crea un collegamento diretto addirittura con l'antica storia romana.

Una debita premessa: lo Spungone (dal dialetto romagnolo spungò oppure spugnò, cioè grossa spugna, con riferimento alla sua inconfondibile struttura porosa ed alveolare) è una tipica roccia sedimentaria presente sulle colline faentine, specialmente nella valle del Marzeno; il monte Torre in località Ceparano ed il monte della Pietramora sono appunto costituiti prevalentemente da questo materiale.

Lo Spungone è un'arenaria a base calcarea ed organogena, costituita in pratica dalla diagenesi e litificazione di fondali sabbiosi in prossimità della costa, ricchi di conchiglie e briozoi che sono rimasti fossilizzati al suo interno; la frantumazione dei gusci ed il loro affastellamento lascia intendere che il sito di formazione primaria fosse una zona di scogliera con forte agitazione del mezzo oppure un fondale basso in prossimità di una riva rocciosa.

Cronologicamente questi orizzonti sono stati deposti in pieno Pliocene medio, cioè poco più di 3 milioni di anni fa (esattamente da 3.300.000 a 3.050.000 anni fa) e sono interessanti per l'anomalia che testimoniano: dopo le crisi di salinità del Messiniano, ultimo piano del Miocene, in cui fra 5,9 e 5,3 milioni di anni fa l'acqua del Mediterraneo a più riprese evaporò quasi completamente dando vita alla formazione Gessoso-Solfifera, con l'avvento del Pliocene l'afflusso di acqua oceanica si normalizzò, i livelli vennero ripristinati ed prese avvio una deposizione di argille azzurre di acque profonde; viceversa, la fase dello Spungone testimonia come, in prossimità di Faenza, fosse presente un fondale basso presso una linea di scogliera rocciosa: è probabile che in quel momendo il fondale marino si fosse sollevato per un movimento tettonico, riducendo drasticamente il livello dell'acqua e creando le condizioni per la formazione di questa calcarenite così atipica nel contesto pliocenico; va comunque sottolineato che questi movimenti tettonici con relativo sollevamento del fondale marino non erano un'eccezione: già alla fine del Messiniano, durante le fasi evaporitiche appena descritte, il cosiddetto evento tettonico inta-Messiniano sollevò il fondale oltre il livello marino dell'epoca, interrompendo di fatto la deposizione delle "alternanze" gessose (i cicli XIV, XV e XVI, presenti ad esempio nelle evaporiti della Sicilia, non si sono formati in Romagna).

Lo Spungone, praticamente, è l'unica roccia presente nella zona di Faenza in grandi quantità che sia sufficientemente facile da lavorare e ridurre in sbozzi dalla forma geometrica anche utilizzando strumenti relativamente primitivi e quindi i Romani, per le prime opere realizzate sul posto, sfruttarono ampiamente blocchi di tale materiale sagomati regolarmente.

Proprio i Romani, forse poco prima della realizzazione della via Emilia (184 a.C.) e del relativo ponte sul Lamone, ricavarono dalla formazione dello Spungone una ingente quantità di blocchi lavorati e produssero nell'alveo del fiume, circa 200 metri a Nord del sito in cui il citato ponte sarebbe sorto, un'opera di importanti proporzioni della quale oggi non c'è più alcuna traccia; fino al '600 era presente un rudere superstite e siccome l'accesso alle mura perimetrali del Borgo d'Urbecco, sull'argine orientale del fiume nei pressi di tale manufatto, era regolato da una porta detta del Quadrone, anche questo rudere costituito dalla sovrapposizione di blocchi di arenaria Spungone veniva denominato "sasso del Quadrone". 

 

 

Questo dettaglio della Planimetria Faventiae di Virgilio Rondinini risale al 1930 ed illustra il citato rudere dell'antica costruzione romana, denominato appunto sasso del Quadrone perchè posizionato a breve distanza dalla porta del Quadrone.

Sulla reale natura del poderoso manufatto romano i pareri sono discordanti: alcuni avevano pensato ad un grande ponte, antecedente a quello "romano" per definizione poi costruito circa 200m a Sud ma l'ipotesi più accreditata propende per un'opera destinata allo scarico delle merci, cioè una sorta di molo; ci si potrebbe interrogare sulle ragioni che portarono ad un lavoro di simile entità  in un'epoca in cui l'abitato non era certamente ancora la Faventia romana cresciuta in dimensioni ed importanza dopo l'apertura della via Emilia, tuttavia non va dimenticato che la val Lamone, fin da epoche antichissime, era una importante via di comunicazione fra lo spartiacque appenninico toscano e le saline etrusche di Cervia: Faenza si trovava in posizione strategica sul confine fra le alture e la pianura ed era sempre stata un punto di riferimento per lo stoccaggio ed il commercio di mercanzie; in particolare, l'alveo dell'antico Alamo (oggi Lamone) consentiva la risalita di barche e chiatte fino all'area faentina, dove le prime alture obbligavano a scaricare le merci (da cui la necessità di un molo di approdo) e a trasferirle sulle bestie da soma per risalire la vallata del fiume verso la Toscana; questa ipotesi è suffragata dal fortuito ritrovamento, al tempo di guerra, di una serie di anfore romane nel sito occupato dall'attuale piazza Giangrandi, a breve distanza dalla zona interessata dall'antico molo, a conferma che in quel punto del fiume i natanti provenienti dalla bassa attraccavano e le relative merci venivano immagazzinate in quell'area attigua. Va detto che la pianura Padana, occupata in precedenza da popolazioni galliche di varia denominazione, fu portata definitivamente sotto il controllo romano fra la fine del III secolo a.C. ed il 194 a.C., pertanto quest'opera non poteva sicuramente essere molto antecedente alla via Emilia ed al relativo ponte, come supposto da qualcuno; visto che si ergeva a valle del ponte, e quindi quest'ultimo non interferiva con la navigazione fino all'approdo per lo scarico, è anche possibile che le due strutture coincidessero cronologicamente; in ogni caso si è sempre nel campo delle ipotesi. 

Con un prodigioso balzo di quasi due millenni arriviamo alla seconda metà del '600: dell'antichissima e mirabile costruzione romana rimane solo il rudere sul sasso del Quadrone e blocchi erratici sepolti nella sabbia alluvionale del fiume; nel 1647 i Carmelitani Scalzi del convento di S. Tomaso diedero il via ad un'opera impegnativa: costruire una nuova e grande chiesa (ora di S. Filippo Neri o del Pio Suffragio, in Corso Mazzini) sulla pianta del preesistente ed antico oratorio dedicato al santo al quale erano devoti; dopo l'abbattimento del fatiscente oratorio di S. Tomaso e la realizzazione delle nuove e più ampie fondazioni, i responsabili dell'Ordine studiarono il modo per fare economia e presero atto che i blocchi di spungone squadrati dai Romani per la grande opera sul Lamone, ormai in stato di abbandono da molti secoli, si potevano riciclare perfettamente nel basamento del nuovo edificio.

Fu inoltrata richiesta formale al Magistrato cittadino che, in data 30 Giugno 1655, inviò risposta favorevole, autorizzando i Carmelitani (citazione letterale) a "prendere dal letto del fiume, dalla parte inferiore di porta Ponte verso il monastero di S. Ippolito tutti i sassi o massi in detto letto esistenti, sia visibili che coperti di sabbia"; così fu fatto e la nuova chiesa, inaugurata nel 1667, presenta una fascia di base realizzata con i blocchi romani di arenaria Spungone provenienti dalla zona del sasso del Quadrone, finalmente riutilizzati dopo circa 1.850 anni dalla prima messa in posa.

 

 

La chiesa di S. Filippo Neri o del Pio Suffragio come si presenta oggi; la grafica mette in evidenza i blocchi di Spungone realizzati dai Romani per l'opera di ingegneria sul Lamone e poi trasferiti in questo sito a metà '600.

 

 

Dettaglio dei blocchi romani utilizzati nel basamento della chiesa del Suffragio; si notano le conchiglie fossili (prevalentemente lamellibranchi) presenti al loro interno; le dimensioni sono irregolari ed abbastanza casuali, ulteriore testimonianza del fatto che si tratta di materiale di riciclo. L'evidente porosità è dovuta anche all'azione differenziata degli elementi meteorici: in particolare, le piogge acide aggrediscono più facilmente le sezioni prevalentemente carbonatiche, così come l'azione meccanica del pulviscolo proiettato dal vento aggredisce prima le aree più tenere.

Questo riutilizzo del blocchi è storicamente documentato tuttavia vorrei spingermi oltre: ogni faentino avrà facilmente notato che un altro, grande edificio che sorge sullo stesso lato di corso Mazzini, a poca distanza da questa chiesa, presenta parte del suo basamento (tutta la sezione sinistra della facciata) realizzata con blocchi di arenaria Spungone del tutto analoghi sia per tipo che per forma o dimensioni a  quelli impiegati nella chiesa del Suffragio: si tratta dell'imponente palazzo Mazzolani, del quale presento una visione supergrandangolare d'insieme.

 

 

Anche in questo caso la grafica mette in evidenza la sezione dell'edificio caratterizzata da una zoccolatura in blocchi di Spungone; la costruzione del palazzo ebbe inizio a fine del '600, pochi decenni dopo il cantiere della chiesa del Suffragio ed è lecito quindi ipotizzare che il committente abbia tratto ispirazione da quanto già fatto dai Carmelitani Scalzi e, per risparmiare a sua volta sulle spese dei materiali, abbia chiesto ed ottenuto a sua volta di raccogliere ed utilizzare i blocchi romani provenienti dal sito del Quadrone. Il nobile Milzetti era sicuramente benestante ma questo edificio è realmente immenso e deve aver comportato costi di costruzione tali da fare impallidire chiunque; il fatto che la questione economica non fosse fuori discussione è confermata dalla constatazione che l'edificio appare tuttora incompiuto e mancante della prevista copertura con lastre bianche, mai aggiunte al termine dei lavori proprio per carenza di fondi.

 

 

Nei blocchi utilizzati in entrambi gli edifici non sono visibili tracce degli scassi necessari per le relative "grappe" fuse in piombo (usate dai romani per stabilizzare la struttura), da cui tre ipotesi: non erano state previste all'origine, le pietre sono state orientate per rendere le incisioni invisibili all'esterno oppure i blocchi romani, dopo quasi due millenni di esposizione alle intemperie ed alle acque del fiume, sono stati rilavorati per eliminare la superficie corrosa e regolarizzarne le forme.

In conclusione è davvero interessante prendere atto di come questi due celebri e maestosi edifici del '600 faentino siano letteralmente fondati su blocchi preveniente da un grande manufatto romano risalente a quasi 19 secoli prima: vetustà aggiunta a vetustà, storia alla storia; sostando davanti alle loro imponenti moli e chiudendo gli occhi si può quasi immaginare le primitive imbarcazioni che accostavano al massiccio molo in pietra per scaricare le merci, un contesto scomparso da un'eternità che rivive grazie all'oculata parsimonia delle maestranze e dei committenti seicenteschi; poi, come non subire il fascino di un edificio di tre secoli edificato su blocchi romani del III - II secolo a.C., a loro volta costituiti da resti di organismi vissuti oltre 3 milioni di anni fa? 

(Marco Cavina)



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